Piazza del Sego 1828. Una storia europea

di Paolo Zanotti *

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Città: Brema e Magonza delle fiabe, palafitte alle foci dei fiumi dell’Asia, nuove capitali scavate nella roccia delle Alpi. Ma più spesso di tutte torna l’unica reale, Norimberga, lontana con le sue torri scure e le acque attorcigliate del Pegnitz, Norimberga perché ci ho vissuto e perché Norimberga è in Europa (Europa. Dov’è lontana l’Europa? Anche qui siamo in Europa. Ma sotto il melo è ancora Europa? Non capisci, ah, non capisci).

Lo capisco ora. Ho lasciato uno spiraglio tra le cataste dei miei libri e alla parete ho appeso una mappa per capirlo sempre mentre mi racconto queste storie di quando di Norimberga non sapevo nemmeno il nome e io non ero ancora nato (nascono: i cuccioli di uomini e animali, le idee, il sole ogni mattina). Sulla mappa Norimberga è proprio al centro, città orgogliosa industriosa solitaria fino al giorno in cui su quella terra si è precipitato l’ingordo cavallo napoleonico, quel forte cavallo bianco e biondo nella criniera, nella coda e negli zoccoli, rampante sui fiumi e sui monti, mentre il cavaliere, ah il cavaliere come sempre è poco più che un accessorio della groppa, è forse per questo che sente il bisogno di farsi ritrarre in mantelli nuvolosi che, persino nelle mie riproduzioni, è facile immaginarli del più bello dei colori: rosso (rosso, sì, ma quale? rosso della conchiglia o della mela? rosso del sangue o della rapa?). Il cavallo bianco e l’uomo di fiamma sopra di lui hanno conquistato l’Europa, questo dicono i miei libri, hanno infranto i cardini e fatto nascere il tempo e la politica, ma poche terre sono cadute così facilmente come questa, mezza giornata indisturbata, al trotto, e il cavaliere che chiede annoiato al suo cavallo: Marengo (ma forse non era Marengo, era Mon Cousin, Cirus, Le Vizir: una delle tante incarnazioni dello stesso cavallo) quando arriveremo a qualcosa? E Marengo (o Mon Cousin, Cirus, ecc.) precisa allora che, generale, nonostante le apparenze abbiamo già attraversato e preso possesso di una dozzina di principati, una manciata di granducati e un paio di regni, senza contare la città libera di Norimberga.

Rimasta impigliata, Norimberga non si sgancerà più. Passato è il cavallo, cavallo e cavaliere si sono infine detti addio, e il cavaliere finirà i suoi giorni su un’isola molto, molto al di fuori dei confini della mappa appesa sulla parete che ho di fronte, ma Norimberga non sarà mai più libera: il regno di Baviera se l’annette, o se la compra. In attesa di una nuova visitazione Norimberga si addormenta. Passano inverni e primavere, Norimberga nel suo sogno è sempre più industriosa e le sue donne hanno cucine sempre più grandi e belle.

Finché un giorno si risveglia. Il giorno è il 6 maggio 1828, lunedì di Pentecoste, questa la data riportata dai libri per il giorno in cui inizia questa storia. L’ora tra le quattro e le cinque del pomeriggio, quando la sera già si annunciava e nella giornata di sole irrompevano in cielo nubi al galoppo. Nitrivano, ah sì se nitrivano.

Molti libri hanno parlato di quell’arrivo, molti e in modo diverso, tanto che è difficile fidarsi dei particolari. Come posso pretendere che questa mia versione risulti più veritiera? Lo vedremo, lo vedremo: il mio arco non è poi privo di frecce, benché di senso forse sì. Quel che è certo intanto è che fu una nascita, o un’apparizione mite, e non l’irruzione dall’esterno di un cavallone sia pur bianco, sia pur biondo, sia pur bello.

Avvenne in Piazza del Sego, non lontano da Porta Nuova, spiazzo rettangolare con sul lato orientale il triangolo affilatissimo della Casa del Sego, dove si smerciava tutto il grasso di bue per le candele che illuminano le nostre notti, per le pomate che sciolgono i nostri muscoli o per i campioni anatomici che istruiscono i nostri studenti. È stata la Casa a dare il nome alla piazza, che di suo più che una piazza sarebbe un grosso crocicchio traforato, e all’angolo di una delle case della piazza, edificio certo anonimo, da un passaggio segreto del mondo, oppure calato dalle nubi strepitanti, o evocato dal gesso di un bambino su una facciata linda, tra le quattro e le cinque del pomeriggio, anche se sarebbe difficile assicurare che non fosse lì da molto prima e nessuno lo avesse ancora notato – nessuno dei buoni norimberghesi ormai bavaresi che quel giorno di Pentecoste erano usciti per rinvigorirsi in campagna, o nei paesi del circondario, e che per l’appunto a quell’ora si stavano apprestando a rientrare tra le mura – nessuno lo avesse ancora notato, dico, quel fardello di carne forestiera ritto all’angolo di una casa di Piazza del Sego.

Vestiva abiti semplici, ma non da contadino. Giacca e pantaloni erano dello stesso panno grigio. In testa aveva un cappello di feltro giallo e tondo. I piedi erano infilati in stivaletti dai tacchi alti, ma poi uscivano di nuovo, perché la punta degli stivaletti era sfondata, e da lì apparivano le dita, sanguinanti e senza calze. Dimostrava sedici anni, aveva una lettera in mano, lo sguardo fisso.

Sarebbe facile dire fosse uno sguardo di paura, da cucciolo che implora di essere carezzato, e cerca, annaspa con gli occhi alla ricerca della mano che lo plachi, ma in realtà il suo terrore non puntava alla mamma, non puntava al padrone, non puntava nemmeno ad altri esseri umani, le cui fattezze del resto poco conosceva, se non per le ombre, le ombre e il peso dell’incedere. Finora ce n’erano pochi che transitavano nella piazza, ordinati come formiche non facevano caso a lui e seguivano le loro rotte prefissate, e a lui sembravano formiche, appunto, perché erano lontani e non capiva, pensava fossero piccoli, pensava tutta la piazza fosse tanto, tanto più piccola, versione senza musica dei carillon che aveva maneggiato prima di venire al mondo e che proprio Norimberga doveva aver prodotto.

Se ne stava lì, dunque, aggrappato al suo angolo mentre lontane transitavano le formiche, ritto in quei logori pantaloni di panno grigio, fermo sui piedi doloranti solo per non poter stare a testa in giù. Ma non aveva paura. Piuttosto non capiva. Sentiva il tocco del vento sulla guancia e non capiva, guardava i muri dall’altro lato della piazza e si meravigliava che, quando li avevano fabbricati, fossero riusciti a farli sembrare lontanissimi. Erano stati bravi. Non gli piacevano però: tutte quelle ombre e pesi che si muovevano producendo un rumore infernale, quelle tonde esplosioni di filamenti verdi, ritte al centro della piazza su una gamba sola, e che avrebbe voluto fossero almeno disposte in un quadrato (lo prese l’impulso di muoversi e porre mano all’ordine del mondo, ma sarebbe stato tutto troppo complicato, spostarle ma anche solo muoversi senza cadere, non si fidava); una lanterna sospesa a un graticcio così marcio che ne sentiva la puzza di lontano. Soprattutto, la stranezza del soffitto lo sconcertava. Non era una superficie uniforme, e al posto di crepe, rigonfiamenti e crateri nell’intonaco si muovevano pecore di fumo. Ritenne di essere stato condotto in una stanza molto strana. Stanco di tanta concentrazione, sbatté alla fine le palpebre.

Sbattono: le palpebre, le bandiere della città affisse alla Casa del Sego, la porta della casa d’angolo. Passò così un’altra mezz’ora.

Intanto qualcuno aveva iniziato a notarlo, solo perché non si muoveva. A distanza, per l’età e per i vestiti lo presero per un commerciante male in arnese. O uno staffiere impolverato. O un vagabondo cui qualcuno avesse donato i vestiti, panno grigio cappello tondo, ma stai a vedere che invece li aveva rubati. Ma se lavorava doveva avere una famiglia, e allora perché se ne stava lì da solo e con le mani in mano? Se invece aveva rubato, perché non scappava?

Il primo che osò avvicinarsi a quel fardello che dimostrava sedici anni, che non lavorava né scappava, fu un cittadino di Norimberga di cui non ricordo più né volto né nome (quella Norimberga è lontana tanti anni, anche senza contare che il mio tempo è più veloce benché immobile) ma che alcune testimonianze vogliono calzolaio, e Georg Weichmann di nome. Non tutte però, e del resto cosa importa? Infiniti sono gli uomini che appaiono e scompaiono sulla scena del mondo, e alcuni di essi (chi può saperlo meglio di me) neppure sono mai esistiti.

Niente lascia pensare che Georg avesse intuito la fantasmagoria di quello straniero che guardava gli alberi, guardava le nubi, guardava la bandiera, guardava il mondo che passava e non sembrava interessarsi a nulla oppure interessarsi a tutto, semmai sul punto di incrinarsi e crollare a terra come uno scemo. Più facile che Georg, vivendo o lavorando lì vicino, fosse rimasto incuriosito dagli occhi d’oppio dello sconosciuto, oppure disturbato dalla sua apatia, era pure una giornata di festa quella. Ma è anche possibile che fosse semplicemente una persona gentile.

Esaminò il fardello di carne forestiera. Notò i piedi che spuntavano dagli stivali (no, non può essere un commerciante, non può essere uno staffiere, allora è proprio un vagabondo?). Si è perso? chiese Georg. Lo straniero non capì, ma avendo catalogato Georg come un essere parlante (distinguendolo cioè dalle bandiere dalle porte dagli alberi in disordine) attraverso questa fondamentale differenza ripescò un’antica raccomandazione così come il cavallo ha imparato il trotto il galoppo il passo secondo il suono e il tocco dello sprone. Fatto sta che gli occhi dello straniero si risvegliarono, le guance si colorirono, la mano si ricordò di reggere una lettera, e la porse all’essere parlante Georg.

Che lesse, perplesso, l’indirizzo: All’illustrissimo Sig. Capitano di cavalleria presso il IV scuadrone del VI reggimento scevolegé di Norimberga.

L’hai scritta tu? chiese Georg. Kaspar Hauser vuole diventare un cavaliere, come suo padre, si limitò a dire il forestiero, con l’aria di chi ripete una lezione a memoria, senza contare il suo accento così pesante e dialettale che Georg in realtà non era così sicuro di aver capito, e non lo fu nemmeno quando lo straniero lo ripeté per una seconda volta, e poi una terza. Sei tu Kaspar Hauser? Voglio dire, ti chiami Kaspar? È così che ti chiami? Lo straniero si concentrò. Kaspar si chiama Kaspar, concluse poi.

No, pensò Georg, non è un commerciante, non è uno staffiere, e anche se è un vagabondo deve trattarsi di un caso molto strano. Decise quindi di accompagnarlo alla stazione di polizia.

Non era lontana, ma il cittadino che forse si chiamava Georg si rese subito conto che condurvi il giovane straniero che forse si chiamava Kaspar non sarebbe stato affatto agevole. Camminava come una marionetta, come se quei movimenti fossero per lui massimamente inabituali. Le piaghe ai piedi gli strappavano lamenti, non da ragazzo ma da bambino che geme contrariato da un malore senza nome (gemono: le ruote sotto il peso, le tortore, le donne nell’atto, i popoli oppressi). Sarebbe stata lunga. Oltre tutto, la città era ormai rientrata al gran completo e le strade erano ingombre. Nessuno poteva fare a meno di notare quel fardello di carne forestiera, forestiera e straziata, che avanzava come una marionetta per quelle strade altrimenti dignitose.

Sulla strada c’era anche la carrozza del borgomastro Binder (il nome questa volta è indubitabile, come sempre succede ai borgomastri rispetto ai calzolai), con a bordo l’intera famiglia, tranne la moglie, si capisce, perché morta sette anni prima. E se il borgomastro non degnò di troppa attenzione il forestiero (il solito vagabondo, incasellò), non altrettanto si può dire dei suoi figli, che se lo bisticciarono: Un eschimese! Ma no è un mohicano! Eschimese, ho detto!

Da parte sua, il forestiero non contraccambiò l’interesse dei bambini, giudicandoli dipinti sugli sportelli della carrozza. Gli piacquero però, e non poco, i cavalli. Non aveva mai visto cavalli così grossi, quelli che amava tanto non erano grandi neanche un centesimo. E per un attimo smise di gemere.

* (Novara, 18 gennaio 1971 – Novara, 5 dicembre 2012). Suoi racconti sono comparsi nelle riviste «Il Caffè Illustrato» e «Nuova Prosa» e nella raccolta «Best Off 2005» (minimum fax). Ha pubblicato vari saggi sul romanzo d’avventura e sulla letteratura per l’infanzia. Nel 2010 pubblica con Ponte alle Grazie il suo primo romanzo, «Bambini Bonsai». Nel 2011 Laterza dà alle stampe «Dopo il primato», analisi sulla letteratura francese contemporanea. Qui presentava l’anticipazione del suo romanzo, dedicato alla storia di Kaspar Hauser, rimasto incompleto.

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